I due fattori decisivi del primo mandato presidenzale di Trump – Prima parte: la scommessa economica

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Trump non è ancora Presidente, deve essere confermato da almeno 270 dei 307 Grandi Elettori

I giochi non sono completamente fatti per Donald Trump, non è ancora Presidente. Lo diventerà se l’esito del voto del 8 novembre verrà confermato da quello dei Grandi Elettori. Il tycoon americano è decisamente favorito perché dal voto di novembre sono usciti 306 Grandi Elettori del partito repubblicano contro 232 del partito democratico (nonostante la Clinton abbia avuto 2,8 milioni di voti in più di Trump!), con la soglia della conferma a Presidente fissata a 270. Ma teoricamente gli Elettori possono anche smentire la nomina di Trump.

Infatti, come da Costituzione USA, gli Elettori non sono soggetti all’obbligo di mandato, possono astenersi o addirittura votare un altro candidato. Esprimeranno il loro voto segreto oggi 19 dicembre, anzi due distinti voti: uno per il Presidente (Trump) ed uno per il vicepresidente (Pence). Seguirà poi una lunga procedura che porterà all’apertura delle schede il 6 gennaio in una seduta congiunta dei due rami del Congresso (gli Stati Uniti hanno un sistema parlamentare bicamerale perfetto, come il nostro bistrattato Parlamento).

Al momento 1 solo Elettore ha dichiarato che non voterà il tycoon di NY. Ci sono però voci che in 20 sarebbero pronti a votare contro di lui. Il Comitato Nazionale Repubblicano, il partito repubblicano ed la macchina elettorale di Trump stanno …. “mantenendo” i contatti con gli Elettori per contenere le defezioni al minimo, evitando il ricorso ad una procedura veramente complessa per determinare chi sarà il Presidente dei prossimi 4 anni. E’ quindi molto probabile che Trump sarà confermato Presidente ed entrerà in carica il 20 gennaio 2017. Resta interessante vedere quante defezioni ci saranno, credo che stabilirà comunque in questo senso un record storico americano negativo.

Facciamo quindi un balzo in avanti e, in attesa di vedere e giudicare la squadra di governo che il magnate newyorkese sta mettendo insieme – anche questa soggetta in parte a successiva conferma del Congresso – concentriamoci sui due fattori che nei prossimi 4 anni saranno, a mio parere, decisivi sia sul piano dei risultati sia per la sua rielezione per il quadriennio successivo 2020-2024. Il primo è quello del rilancio dell’economia, il secondo è quello della politica internazionale, che esaminerò nella seconda parte di questo post.

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Fattore n.1: l’economia, il lavoro, i redditi, il debito, il rilancio della politica keynesiana USA

Cominciamo con la lista dei principali interventi di politica economica annunciati in campagna presidenziale e successivamente confermati 

  1. Riduzione delle tasse sui redditi personali e delle imprese
  2. Piano di investimenti pubblici in infrastrutture pubbliche
  3. Incentivi a restare e/o penalizzazioni per imprese che vogliono trasferirsi all’estero
  4. Revisione o annullamento dei trattati commerciali internazionali, svantaggiosi per l’economia USA.
  5. Aumento dei prezzi del petrolio. Quest’ultimo non è un intervento del futuro Presidente, ma un fattore economico esterno, che ritengo sia già in atto e che continuerà nei prossimi anni, favorendo decisamente l’economia americana.

E’ un programma che farebbe rabbrividire l’austero trio teutonico Frau Merkel, Herr Schauble, Herr Weidemann. Questi interventi del governo produrranno l’annunciato (da Trump) aumento del tasso di crescita reale dall’attuale 2% al 4%? A mio parere sì, magari non proprio un raddoppio, ma un 3-3,5% è possibile. Provo a spiegarmi

Le prime 2 misure sono due facce della stessa medaglia: su una faccia c’è scritto “aumento della domanda privata e pubblica” (minori tasse e quindi maggiori consumi privati + aumento investimenti pubblici finanziati a debito), sull’altra però troviamo scritto “aumento del deficit e del debito pubblico” (minori imposte in entrata e maggiori spese dello stato). Cresce il Pil ma anche il debito pubblico (che in America è salito al 108% del Pil, dati FMI). Un risultato ambiguo, salirà di più il reddito o il debito?

Dipende se si innesca o meno l’effetto moltiplicatore/acceleratore della spesa pubblica e privata, concetto di macroeconomia della scuola di pensiero keynesiana, antitetica al dominante filone neo liberista americano: prescrive infatti, nelle fasi negative o incerte del ciclo economico, l’intervento dello Stato e/o un contenimento della tassazione.  per sopperire alle deficienze del mercato. Viceversa, nelle fasi di surriscaldamento la ricetta keynesiana suggerisce una riduzione della spesa pubblica e/o una maggiore tassazione. Vediamo in essenza cosa è l’effetto moltiplicatore.

Significa che ogni miliardo di spesa pubblica aggiuntiva o ogni miliardo di tasse lasciato in più nelle tasche degli americani può innescare un aumento maggiore (moltiplicatore è > di 1), ma anche minore (moltiplicatore è < di 1) del reddito. Dipende dai BISOGNI e dalle ATTESE dei percettori (lavoratori, imprenditori, professionisti, pensionati) di quel miliardo aggiuntivo e di tutta la comunità in generale. O se preferite dal grado di ottimismo o pessimismo del paese.

Se prevale l’ottimismo al miliardo iniziale di maggiore deficit pubblico (che si traduce in reddito privato spendibile) si può aggiungere fino ad un secondo miliardo di consumi (risultato di una maggiore velocità di circolazione del reddito e/o di un utilizzo di risparmi disponibili). Viceversa, se regna il pessimismo, non solo non aumenta la velocità di circolazione e non si pesca nel risparmio accumulato, ma una parte del miliardo iniettato attraverso spesa pubblica viene accantonato in risparmio.

I bisogni e le aspettative influiscono in economia, nel caso specifico sulla velocità di circolazione della moneta e sull’utilizzo/accumulo dei risparmi che a loro volta impattano sull’economia reale, amplificando/riducendo l’iniziale iniezione nella macchina produttiva di fondi pubblici finanziati a debito. Non è certo l’unico caso in cui economia e finanza si intrecciano con problematiche psicologiche.

Tornando al caso concreto americano: si può innescare questo aumento della domanda aggregata interna? Decisamente sì, il quasi-certo neo Presidente Trump sta alimentando ottimismo/aspettative con il suo “Make America great again” e se tali attese positive fossero confermate da decisioni concrete nei primi 100 giorni del neo Presidente, si avvierebbe la spirale positiva del moltiplicatore/acceleratore sopra citata.

Fin qui siamo ad un possibile tasso di crescita reale del +3%. C’è poi da aggiungere l’impatto positivo aggiuntivo dei fattori 3, 4 e 5, che porteranno ulteriore aumento dell’occupazione e del reddito. Ma teniamoli di scorta e restiamo su un +3% reale.

Per completare il ragionamento economico, dobbiamo adesso introdurre il fattore inflazione, che si aggiunge al precedente 3% di crescita reale. Dopo un 2015 ad inflazione quasi zero, quest’anno il Fondo Monetario Internazionale stima per gli USA nel 2016 un + 1,2% e un +2,5% annuo nel biennio 2017-2018. Quest’ultimo valore è in linea con la media del periodo 2000-2007, antecedente la crisi finanziaria del 2008. La risalita del prezzo del petrolio, già avviatasi, consoliderà ulteriormente sia l’inflazione sia il tasso di crescita reale americano. 

L’inflazione è tuttavia un’arma a doppio taglio e richiede una stretta collaborazione Governo-FED-Imprese. Non deve infatti superare il 2-2,5%, più è alta e più diventa improbabile che i salari ne tengano il passo, spegnendo così rapidamente l’onda di ottimismo indispensabile per mantenere il moltiplicatore sopra il valore critico di 1. La partita se la gioca il trio sopra citato, la posta politica è la rielezione di Trump. La FED in particolare, oltre all’inflazione dovrà contenere i tassi di interesse e contrastare la rivalutazione del dollaro per non penalizzare le esportazioni americane e la bilancia commerciale.

Proseguendo con il ragionamento economico, la crescita del Pil nominale (tasso reale+aumento prezzi) si potrebbe quindi attestare tra il 5 ed il 6%. Facciamogli la tara e diciamo intorno al 5% nel 2018, dopo un 2017 di avvio. Ora, siccome sempre il FMI, prevede nei prossimi anni un deficit pubblico americano intorno al 3,5%, si può concludere che il rapporto debito/Pil, attestato oggi al 108%, potrebbe scendere anche di un punto e mezzo percentuale all’anno, ritornando nel 2020 (nuova tornata elettorale) vicino al valore di 100.

Dovrebbe scendere anche il pericoloso tasso di indebitamento privato americano (famiglie ed imprese). L’occupazione, i redditi ed i salari saranno in recupero rispetto alle perdite degli ultimi 8 anni. Gli squilibri sociali in attenuazione, e Donald sarebbe lanciato verso la sua riconferma. Staranno al gioco la FED (=i magnati della finanza privata che la controllano) e le grandi corporations americane? Credo che ci si metteranno di buzzo buono, a meno che non vogliano fare incazzare ancora di più gli americani.


Trump, keynesiano per opportunismo. E dalle nostre parti? 

Non sono filo trumpista, da analista neutrale sto dicendo che mi sembra probabile che, se applicherà in modo deciso e tempestivo, la ricetta economica keynesiana anti-austerità insieme al suo team,  può decisamente avere successo. Mantenendo questo basilare impegno economico assunto in campagna elettorale, Trump stabilirebbe una buona base per ottenere la sua rielezione per il secondo mandato 2020-2024.

Sarebbero l’America ed il mondo occidentale usciti dall’instabilità intrinseca alla struttura del “moderno” globalismo oligopolistico e finanziario? La crisi sociale ed economica dell’Occidente degli ultimi 8 anni sarebbe risolta? Assolutamente NO, scenderebbe la febbre dai pericolosi alti valori attuali, ma il malato resterebbe grave, le cure risolutive strutturali sono altre. 

Si confermerebbe ancora una volta l’indispensabilità dell’intervento pubblico per il rilancio dell’economia: nel 2008 il governo americano – con l’indispensabile supporto della FED – salvò il sistema finanziario americano privato e semi-pubblico, ora un secondo intervento pubblico caratterizzato da una politica economica espansiva  nel primo quadriennio di Trump farebbe uscire l’America dal ciclo negativo degli ultimi 8 anni.

Sarebbe ovviamente smentito il dogmatismo della cultura liberista del Dio Mercato che è in grado di tutto regolare, con effetti benefici per tutta la società (anche se le armate mediatiche dell’establishment farebbero di tutto per nasconderlo). Ma attenzione, non è idiozia intellettuale, il liberismo economico è l’ipocrita maschera ideologica del capitalismo privato oligopolistico che punta ad occupare lo spazio economico e finanziario dello Stato, a contenere l’intervento normativo dei governi, a schiacciare il reddito dei lavoratori, a diluire le nazioni in una melassa consumistica globalista. In altre parole non è un pensiero scientifico, bensì politico.

Sempre da analista e non da visionario, voglio esplicitare alcune fattori chiave impliciti nei ragionamenti fatti fin qui sulle prospettive economiche della prima presidenza di Trump.

  • Questa politica fiscale espansiva (aumento del deficit, più che compensato da un maggiore aumento del Pil) del governo trumpista deve essere accompagnata/non ostacolata da una acconcia politica monetaria della Federal Reserve. Da questo punto di vista Trump può dormire sonni tranquilli, le decisioni sui tassi di interesse e la politica annunciata dalla FED questa settimana sembra accomodante: tassi di interesse in lento graduale aumento, fino al 3% nel 2019. Un percorso in grado di accompagnare il progetto economico del quasi-presidente. Tra Trump e Yellen non si profila un idillio, ma neanche guerra aperta.
  • L’annunciato calo delle tasse dovrà essere significativo, oltre che per le imprese, per le famiglie prevalentemente di reddito medio e basso. Qualora invece fosse concentrato su quelle di reddito alto non ci sarebbe alcun stimolo alla domanda interna.
  • Il quadro descritto prescinde da possibili ma anche, a mio avviso, improbabili nuovi sconvolgimenti finanziari in occidente o in oriente (Cina), che farebbero saltare tutti i ragionamenti esposti. I big della finanza e i politici interverranno a spegnere i focolai.
  • Analogamente, la positiva valutazione della futura performance economica americana che ho espresso, prescinde da possibili ma improbabili crisi geopolitiche/militari su scala mondiale. Questo sarà il tema principale che svilupperò nella seconda parte del post.
  • La politica fiscale annunciata dal nuovo Presidente non è una novità in America, è molto simile a quella formulata e poi perseguita dal ex attore Ronald Reagan, la cosiddetta reaganomics. I confronti, oltre che prematuri, sarebbero fuori luogo perché il contesto macroeconomico americano e mondiale è totalmente diverso. Sto solo dicendo che Donald e i suoi consiglieri non hanno inventato nulla.

Questa fase intermedia tra le votazioni del 8 novembre e l’insediamento di Trump alla casa Bianca il 20 gennaio 2017, sta confermando la natura ed il carattere atipici del momento storico e della persona che siederà nello studio ovale. Continua l’accanita opposizione di settori importanti della politica della stampa e delle istituzioni americane. Questo mi porta a non escludere possibili (e anche drammatici) colpi di scena addirittura per tutta la durata della prima presidenza trumpiana, anche perché lui ci metterà del suo.

Un cenno finale al resto del mondo occidentale. Il Regno Unito di sua Maestà sarà su una linea simile a quella degli USA. Il Giappone è da 25 anni bloccato in una spirale “pessimistica” che non traduce gli enormi deficit pubblici in crescita del reddito (vedi dati FMI), il paese nipponico non sembra quindi in grado di seguire appieno l’onda americana. Analogamente l’Unione Europea non seguirà la politica economica degli USA, la Germania può solo accettare una attenuazione della politica di austerità (e solo per motivi tattici di opportunità politica di breve termine), ma non il suo ROVESCIAMENTO, quale è la politica fiscale keynesiana annunciata da Trump. Farà qualcosa in quella direzione e con ritardo, esattamente come la BCE ha fatto dal 2013 rispetto all’azione della FED del 2008. In ogni caso anche in Europa aumenterà l’inflazione e ciò aiuterà il rapporto debito/Pil a stabilizzarsi o diminuire leggermente.

Nell’insieme ci potrebbe essere quindi per il Vecchio Continente un parziale miglioramento, ma all’interno della UE/Eurozona continuerà la spaccatura: da una parte i paesi che possono permettersi di avere la stessa moneta della Germania (non molti) che avranno più o meno lo stesso ritmo dell’America e dall’altra tutti le economie periferiche al rallentatore, con l’Italia che resterà in coda alla classifica. E la propaganda dei media continuerà a raccontarci che è tutta colpa della nostra corruzione ed incapacità. Proseguirà la svendita del paese a prezzi di favore ai francesi, ai cinesi, agli arabi, ai tedeschi. Se non ci svegliamo presto e non riconosciamo le fandonie che ci propinano giornalmente ……

Il professor Monti nel suo governo di 1 anno e 5 mesi ha affossato a colpi di Austerità l’economia italiana – da cui non si uscirà senza una politica espansiva, impensabile finché restiamo legati all’Eurozona – utilizzando la tecnica della “distruzione della domanda interna”, come lui stesso spiega al suo esterrefatto interlocutore americano in questa intervista del 2012. Per fargli compiere la sua missione Napolitano gli conferì la nomina di Senatore a vita, un compenso che ci costa circa 300.000 euro all’anno. Oltre al danno la beffa!!

Finisce qui la prima parte, nella seconda ci concentreremo sulla politica estera, facendo qualche riflessione sulle novità annunciate da Trump in materia di geopolitica. La domanda è: come intende gestire l’attuale posizione egemone occupata dagli Stati Uniti nello scacchiere mondiale?

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